Non esistono promesse.
Sono solo parole dette al vento, scritte sul bagnasciuga del mare in burrasca, sul ghiaccio in mezzo al deserto. Sono pesi privi di gravità, inconsistenti ed impalpabili come la foschia che si leva dai campi di primo mattino.
Cadono nell’oblìo, vengono rinnegate, condannate, si gettano come carta straccia appena si cambia opinione; non valgono nulla, neppure il fiato che serve a emettere le parole di cui sono formate, neppure l'inchiostro e la carta usati per scriverle.
Di certo non sono scolpite nella pietra dura delle profondità di Gaia, non sono forgiate col fuoco di Efesto; sono piuttosto proprietà di Plutone che ama teneramente e dispensa i suoi tesori, che rapisce e violenta come il dio fece con Persefone, il cuore e la mente di chi le accoglie e festeggia la gioia di Cerere e di chi ne viene privato e subisce la vendetta di Cerere. Ci si crede solo perché si vuole, mossi da una qualche forma di creduto sentimento verso chi le pronuncia o verso chi le pronunciamo, ma sprofondano nell’Ade appena ci voltiamo a guardarle, come fece la sposa di Orfeo. Il loro nome e le loro sembianze sono quelle di Taide, di Ulisse, di Giasone e di Ipsipile.
Horkos attende chi le infrange, Malebolge sarà la loro dimora eterna.
Le promesse sono chimere, pure come unicorni e fetide come le figlie di Taumante.
Siamo noi che diamo valore ad esse a seconda del valore che crediamo di avere, che vogliamo credere a ciò che diciamo o a ciò che sentiamo, fino al momento in cui non ci franano addosso come macigni o non volano via come petali di rosa sfiorita, come cadaveri di zanzare che ormai non pungono più.
(nell'immagine: Horkos, dio greco dei falsi giuramenti)
7 maggio 2019
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