Cosa può fare un uomo quando scopre che non avrà mai la giustizia a cui anela? Cosa gli rimane quando scopre di essere stato tradito da tutti coloro di cui si fidava?
Con chi si confiderà un uomo affranto, indifeso, sconfitto, senza apparire lagnoso, lamentoso, debole, senza muovere sentimenti di disprezzo al posto di quelli di compassione, senza attirare antipatia epidermica piuttosto che empatia profonda, senza sembrare una “donnicciola inerme” alla faccia della pretesa “parità di genere”?
Come può resistere agli haboob di rabbia che vorrebbero distruggere tutto e tutti con un solo gesto della mano e al contempo al vento gelido e sferzante della consapevolezza che nulla di ciò che è in suo potere potrà mai avere qualche effetto utile alla sua causa ma, semmai, peggiorare ulteriormente la sua situazione?
Non può fare nulla. Non gli rimane nulla.
Quando i pensieri si sommano, quando ci si rende conto che non si è ancora finito di perdere quel poco che si è trattenuto per una mera questione di sopravvivenza, la disperazione comincia a dilagare, a erodere la logica che si tentava di porre come ultima barriera alla tempesta e alla sua devastazione, gli spifferi violenti della sabbia abrasiva e rovente della cattiveria altrui che penetrano tra le crepe della tuo ultimo baluardo ti colpiscono il viso e gli occhi, ti entrano in gola soffocandoti e asciugando le tue energie residue, l’unica mossa logica da fare è mollare il colpo.
Lasciarsi andare.
Inutile insistere come con un crudele accanimento terapeutico, la malattia è terminale e non può che avere esito nefasto, per cui l’ultima goccia di logica impone che si stacchi la spina alle speranze artificiali, che si proceda con la pietà della sedazione profonda del corpo per liberare l’anima in gabbia e permetterle, finalmente, di riposarsi e di fare spallucce alla perfidia, alla menzogna, alla delusione.
Logica contro istinto di sopravvivenza.
Deve vincere la logica quando ci si rende conto che non si sopravvivrà, che combattere ancora non porterà al miglioramento, ad un futuro radioso e ad un finale da fiaba. Le fiabe non esistono, perché illudersi? Perché logorare del tutto l’anima fino a ridurla ad un cencio consumato e sporco?
L’anima è la vela che raccoglie il vento della Vita e ci dirige sicuri sulla rotta, ma se troppe tempeste e poche cure l’hanno strappata non potremo che fermarci in mezzo alla bufera e attendere consapevolmente il momento in cui l’onda finale capovolgerà il guscio di noce della nostra esistenza e metterà fine alla navigazione in questo oceano di lacrime. Perché attendere un momento ineluttabile? Per raccomandarsi l’anima a Dio? A quale Dio, per cominciare, e con quale anima, che non ce n’è più neppure per tenere gli occhi aperti? Tanto vale farla finita il prima possibile, senza perdere tanto tempo a riflettere. Il tempo dedicato a rimuginare sulla decisione è tempo in più preda del patimento, dell’agonia.
Forse è proprio vero che, per qualcuno, l’unico modo di vincere nel perverso gioco della Vita è
non giocare.
Abbandonare il tavolo prima possibile.
Non si ha più nulla da perdere, non si vincerà mai, a che scopo restare incollati ad una sedia da cui guardare gli altri giocare con il tuo capitale depredato con l’inganno?
Chiamarsi fuori. Non significa neppure non voler prendere decisioni, è ammettere a se stessi che qualsiasi decisione si potrà prendere in futuro sarà comunque sbagliata e infruttuosa, destinata all’insuccesso perché “Per fare la guerra con successo, tre cose sono assolutamente necessarie: primo, il denaro, secondo, il denaro, e terzo il denaro.” disse Trivulzio.
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